Varianti, quinto d’obbligo e opzioni: le “sibilline” indicazioni ministeriali
di Massimo Gentile[1]
Il Supporto Giuridico, del Servizio Contratti Pubblici, del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti con parere del 29 ottobre 2024, n. 2918 ha risposto ad un quesito formulato da un Comune sulla tematica delle varianti in corso d’opera.
Giova rammentare che detto Supporto Giuridico è stato istituito dal Ministero, in collaborazione con la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome ed ITACA – Istituto per l’innovazione e trasparenza degli appalti e la compatibilità ambientale, sulla base di uno specifico Protocollo d’intesa e in attuazione dell’art. 223, comma 10, del D.Lgs. n. 36/2023.
Il caso sottoposto all’attenzione della struttura Ministeriale riguarda un quadro economico posto a base di gara che prevede, “tra le somme a disposizione”, una “somma pari al 3% dell’importo lavori quale opzione contrattuale da utilizzarsi nel caso fosse necessario redigere una variante contrattuale”. Siffatto importo – viene precisato dal Comune in sede di quesito – “non è stato progettato ma solo accantonato per eventuale variante” e considerato ai fini del “valore massimo dell’appalto”. Il capitolato reca la clausola in base alla quale, “in caso di modifica contrattuale entro il quinto, l’appaltatore è tenuto ad eseguire il contratto alle condizioni originarie”.
La domanda che pone il Comune è se, “in caso di variante, la tipologia è sempre riconducibile all’art. 120, comma 1, lettera a (opzione contrattuale), oppure va individuata un’ulteriore casistica da valutare caso per caso” e se, qualora “la stazione appaltante dovesse redigere una variante, potrà utilizzare SOLO quel 3% originariamente previsto oppure può utilizzare altre somme nel quadro economico (es. ribassi d’asta, risparmi sulle progettazioni) ed aumentare quindi la percentuale di variazione”.
Secondo il Ministero, occorre distinguere tra somme stanziate nel quadro economico e importo stimato dell’appalto, che deve essere comprensivo delle eventuali opzioni, ai sensi dell’art. 120, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 36/2023.
Nel caso di specie – osserva il MIT – la stazione appaltante potrà esercitare l’opzione entro i limiti prestabiliti, vale a dire il 3 per cento dell’importo dei lavori.
Nel parere è, quindi, rimarcato che il riferimento alla modifica contrattuale entro il quinto riguarda le varianti in corso d’opera di cui all’art. 120, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 36/2023 e, pertanto, afferisce ad una “fattispecie di modifica contrattuale diversa da quella dell’opzione che può essere esercitata ai sensi e alle condizioni di cui alla precedente lettera a) del medesimo comma”.
Prosegue il Ministero evidenziando che “Alle varianti in corso d’opera sembra applicabile infatti, nonostante il richiamo testuale alla fattispecie di cui al comma 9 dell’art. 120 del Codice, l’art. 5, comma 6, dell’Allegato II.14”, in base al quale “l’esecutore non può far valere il diritto alla risoluzione del contratto e la perizia suppletiva è accompagnata da un atto di sottomissione che l’esecutore è tenuto a sottoscrivere in segno di accettazione o di motivato dissenso”.
Conclude, quindi, il parere rilevando che “le risorse per i maggiori importi derivanti dall’approvazione di varianti in corso d’opera dovranno pertanto essere reperite nel quadro economico da voci di spesa diverse da quelle relative alle somme accantonate per le modifiche derivanti dall’esercizio di opzioni contrattuali”.
Il parere del Ministero necessita di alcune riflessioni.
Anzitutto, non può che convenirsi sulla circostanza che il diritto di opzione di cui all’articolo 120, comma 1, lett. a), del Codice sia una fattispecie del tutto distinta dalle “varianti in corso d’opera” di cui alla lettera c) del medesimo articolo.
Le due ipotesi partono da presupposti differenti.
Il diritto di opzione legittima l’introduzione, da parte della stazione appaltante, di una modifica contrattuale indipendentemente dalle ragioni che la determinano e “a prescindere” dal valore monetario della stessa.
Unica condizione è che l’opzione sia stata prevista in “clausole chiare, precise e inequivocabili dei documenti di gara iniziali”.
Taluna giurisprudenza ha anche avuto modo di precisare che l’esercizio del diritto di opzione “non si inserisce nell’alveo dell’esercizio di un pubblico potere, ma è la manifestazione della capacità e dei poteri di diritto privato” di cui una stazione appaltante è titolare[2].
Le varianti in corso d’opera possono, invece, essere introdotte solo se “resesi necessarie in corso di esecuzione dell’appalto per effetto di circostanze imprevedibili da parte della stazione appaltante” (art. 120, comma 1, lett. c) del Codice) e se “l’eventuale aumento di prezzo non ecceda il 50 per cento del valore del contratto iniziale” (art. 120, comma 2, del Codice).
Ebbene, nel caso di specie, il Comune sembrerebbe aver previsto il diritto di opzione semplicemente mediante l’inserimento, tra le somme a disposizione, di un importo (pari al 3% dell’ammontare dei lavori) “da utilizzarsi nel caso fosse necessario redigere una variante contrattuale”.
In sostanza, è stato stabilito un importo senza ricondurlo a specifici lavori che la stazione appaltante si riservava di affidare e, dunque, alla stregua di un mero accantonamento, in vista di una (eventuale) futura necessità di introdurre varianti in corso d’opera, al momento della gara non ipotizzabili.
Ad avviso di chi scrive, previsioni di tal genere non possono essere collocate nell’ambito della “clausola di opzione” di cui all’articolo 120, comma 1, lett. a), in quanto non configurano “clausole chiare, precise e inequivocabili” come prescritto da detto articolo.
E’, infatti, evidente che, mancando qualsiasi indicazione atta a consentire, al momento dell’offerta di gara, l’individuazione della tipologia di lavori oggetto dell’eventuale futuro affidamento, la previsione si riduce ad un mero accantonamento di somme in vista di future esigenze che non ha nulla a che vedere con la clausola di opzione.
Non solo, ma se un’ipotesi di tal genere venisse considerata “opzione”, la fattispecie sarebbe sottratta alla disciplina delle varianti, con conseguente venir meno della necessità del preventivo accertamento che la modifica sia conseguenza di “circostanze imprevedibili da parte della stazione appaltante”.
In altre parole, collocare la fattispecie nell’ambito dell’opzione, starebbe a significare che, all’interno dell’ammontare economico indicato (o meglio, accantonato) in sede di gara, qualsiasi modifica progettuale in corso di esecuzione del contratto sarebbe ammessa, indipendentemente dalle ragioni giustificatrici della stessa.
Peraltro, come giustamente rimarcato dal medesimo Ministero in un precedente parere (Parere 21 giugno 2024 n. 2644), in caso di opzione la qualificazione richiesta all’operatore economico in sede di gara “deve avere riguardo, oltre ai lavori principali, anche a quelli opzionali”, benché “l’attivazione di questi ultimi sia incerta”. Ne consegue che, in mancanza di una indicazione sulla tipologia di lavori che formano oggetto del diritto di opzione, non è possibile calibrare detta qualificazione.
La disciplina regolante la fattispecie va, quindi, ricavata integralmente nelle previsioni di cui al richiamato art. 120, comma 1, lettera c), disciplinante le varianti in corso d’opera.
Pertanto, al verificarsi della necessità di introdurre una variante, la stazione appaltante è tenuta ad accertare la legittimità della stessa, appurando che siffatta necessità sia correlata a “circostanze imprevedibili” e che il relativo ammontare risulti contenuto nel 50% dell’importo del contratto.
In caso di accertamento positivo, la variante potrà essere introdotta anche se di importo superiore alla somma accantonata, sempre che vi sia adeguata provvista nel quadro economico.
Va da sé che alla fattispecie trova anche applicazione la previsione dell’articolo 120, comma 9 che impone all’appaltatore – se previsto in sede di gara – di eseguire la variante fino alla concorrenza del quinto dell’importo del contratto alle condizioni originariamente previste.
In mancanza di una espressa previsione in tal senso nella documentazione di gara, siffatto obbligo deve ritenersi insussistente.
Ciò è confermato anche dall’articolo 5, comma 6, dell’Allegato II.14, il quale – nello stabilire che “l’esecutore non può far valere il diritto alla risoluzione del contratto e la perizia suppletiva è accompagnata da un atto di sottomissione che l’esecutore è tenuto a sottoscrivere in segno di accettazione o di motivato dissenso” – precisa espressamente “nel caso di cui all’articolo 120, comma 9, del codice” e, dunque, fino alla concorrenza del quinto dell’importo del contratto se stabilito nei “documenti di gara iniziali”.
In conclusione, è opinione dello scrivente che il parere del MIT, nell’encomiabile spirito di sinteticità che lo caratterizza, presenti taluni profili di fuorviante interpretabilità, con conseguente rischio di una non corretta applicazione delle norme da parte degli operatori interessati.
Rischio che, in considerazione dell’articolata disciplina delle modifiche contrattuali contenuta nel Codice, si appalesa tutt’altro che remoto.
Gli errori vivono difatti nelle vicinanze della verità e, quindi, spesso ci illudono…
[1] Pubblicato su www.appaltiecontratti.it del 4 novembre 2024.